Cosa trova chi visita per la prima volta l’Isola? Nelle parole di Marco Belli tutto l’amore di chi è rimasto folgorato dalla Sicilia.


Trinacria

Sicilia, viaggio nell’Isola: persone, luoghi, sapori che stregano

Alle sei del mattino, il refrain del furgone della spazzatura che ingoia i rimasugli del quartiere mi sveglia da un sonno profondo. Erutta l’Etna, mi chiedo mentre apro le tende, investendo la stanza del B&B di una luce calda. Vorrei uscire e respirare l’aria del mare su cui si affaccia Messina, ma temo che giungano alle mie narici solo i miasmi dei rifiuti. Il quartiere universitario dove mi trovo è ancora sonnecchiante, e per strada non si sentono rumori di auto o mezzi pesanti. Avverto però il vociare dei clienti che si immettono nel bar vicino, e ho voglia all’improvviso della loro compagnia. Magari bevendo un buon caffè. Mi preparo in gran fretta e scendo sperando di ingrossare la fila dei clienti. Ma sono fermato, nel frattempo, da una persona dall’aria familiare.



“Buongiorno, Carmen: già sveglia? Coffee break?”

Carmen è la commessa della rosticceria Famulari, proprio al piano terra dell’edificio del B&B, ed è la gentilissima raccogli ordini che all’ora di pranzo allieta la mia esistenza con il suo fare rassicurante. Per non parlare della meticolosità con cui descrive meravigliosamente, anzi racconta, le pietanze più complicate, arricchendo la mia fantasia culinaria.

‘No, grazie, signor Marco, vado di fretta perché devo evadere una commissione di pidoni e arancini. Comunque ci vediamo a pranzo, se lei ci sarà. Ma come mai è già in piedi?’, mi chiede sorridendo con grazia e cortesia, cercando nei toni e nella distanza di non essere invadente.

“L’Etna ha eruttato sotto forma di camion della spazzatura. Ed eccomi qua”, le rispondo. Ride di gusto, salutandomi con una certa fretta.



Dopo il pieno del nero carburante, decido di fare una passeggiata, cominciando a contare i passi. E non incontrando nessuno, naturalmente. Perché la città adora stare ancora un po’ a letto… Dopo qualche decina di metri, in una strada che interseca via Cesare Battisti, scorgo un uomo con la barba, seduto su una sedia di paglia davanti la propria abitazione, gustarsi una sigaretta; e sento una donna dentro casa sbraitare qualcosa al suo indirizzo nel dialetto locale.

“Meglio fumare in santa pace, eh?” gli dico cercando complicità. E lui, serafico, mi risponde in dialetto: ‘Cettu‘. Abbozza un saluto. Sorrido e ricambio.



La magia della Sicilia, la magia di Messina

Nel girovagare, mi ritrovo all’improvviso come catapultato in una dimensione lontana anni luce dal mio modo di vivere, che è il modus vivendi ormai di tutto il mondo: freneticamente ansiogeno e ipnotizzato dalle lancette dell’orologio. Qui, il tempo – sarà una frase fatta, ma è così – sembra essersi fermato. Proseguo in silenzio tra case colorate e botteghe di pasticcieri, rigattieri, tabaccai, lentamente, un passo dietro l’altro, quasi a misurare gli spazi come un agrimensore d’altri tempi. Mi guardo intorno e mi accorgo d’essere l’unico a seguire le rotte che si aprono fra queste case.



Durante quell’incedere un po’ flâné, incontro un pittore con la sua postazione en plein air tuffato nella sua tavolozza di colori a olio. Si sta concentrando sul calendario perpetuo della Torre Astronomica del Duomo in stile normanno, tentando di cogliere ogni minimo particolare, seppur da lontano, del modello del sistema solare che vi è effigiato: le forme dorate degli elementi dello zodiaco, così come i raggi del sole riprodotto, sembrano risplendere appositamente per accecarlo, per non consentirgli di immortalare quella bellezza risorta miracolosamente dopo il finimondo di oltre cent’anni prima.

Io invece avverto il rischio di perdermi tra le calde fragranze dei caffè e degli arancini, che evocano in me sensazioni naturali e profumi ignoti. Qualche passo più avanti sta aprendo il banchetto quello che chiamano ‘u siminzaru, e mi immergo nelle infinite sfumature della terra: collane di fichi secchi, batterie di datteri, cannella, cumino, cardamomo, noce moscata, e naturalmente pistacchi. Piccoli smeraldi incastonati in gusci semiaperti, disposti in sacchi e ceste. Se si tratta dei frutti di Bronte, vorrei chiedere, ma continuo il mio disordinato e piacevole ciondolare.



Mi addentro nelle varie strade, e mi ritrovo fra le bancarelle che vitalizzano questo angolo di città, creando un vero e proprio bazar. Un labirinto di oggetti e desideri. Tavolacci sommersi da pellami, lampade, tappeti intessuti di magia e miraggi, antiquariato e modernariato di varia fattura. Un banco vende piante, e il profumo di gelsomino unito a quello di altri che non conosco mi colpisce nei sensi e nel cuore. Aromi che seducono, confondono, stordiscono. Il luccichio di topazi, zirconi e rubini – certamente falsi, ma che cosa è vero non lo so più – si alterna con la luminosità degli occhi dei commercianti, intenti a predisporre la propria mercanzia.



Occhi neri, profondi, misteriosi. Pupille penetranti che sussurrano operosità e sofferenza, ripercorrendo idealmente secoli addietro di antiche civiltà sorte in terre solitarie, a seguito di viaggi incredibili e approdi di genti sconosciute. Decido di continuare. Dopo passi che è impossibile contare, senza sapere quale direzione prendere, nel centro storico, denso di storia (gli edifici di Coppedè, palazzo Tremi, palazzo Piacentini) mi imbatto nell’insegna di un locale. Piccola. Seminascosta. Collocata su un cornicione. La scritta recita “Bar Torino”. Decido di fermarmi. È una porta aperta verso un altro mondo, l’universo proibito dei caffeinomani. Il caffè, la loro unica droga. Il caffè, il mio unico vizio. Compagno fedele di giorni e notti trascorsi a giocare con le parole, a plasmare le storie che vivono nei miei libri.



Per un momento mi chiedo che cosa stia facendo e perché mi trovi in questa città, tra questi odori sconosciuti e penetranti, questi volti e usanze che non mi appartengono. Il mio paese, la mia casa sembrano non essere mai esistiti. Forse sono qui per ritrovarmi. Mi sento solo, estraneo a me stesso, anche un po’ spaventato, attirato irresistibilmente da questa realtà così distante dal mio quotidiano. Una dimensione sconosciuta che mi attira come fosse una calamita.

La luce del sole penetra soffusa fra i rami degli alberi che fanno ombra all’ingresso del bar, attenuando il calore dei raggi della mattina. Attendo pazientemente che la commessa venga a prendere la mia ordinazione. Mi lascio andare ai ricordi, a struggenti meditazioni sentimentali (dal passato altri volti di donna che si affollano e si sovrappongono). Arriva l’agognata tazzina fumante, e comincio a rilassarmi al solo vederla sul vassoio traballante in arrivo dal bancone.
Mentre l’aroma dell’arabica si spande nell’aria, i miei pensieri sembrano librarsi in volo, dando vita a una specie di danza d’amore, intensa e passionale, che arriva con i suoi volteggi fin dentro l’anima. Un tango disegnato nel pulviscolo della luce.



Credits: Marco Belli “La tovaglia di sabbia”


Regione premia i “Borghi più belli della Sicilia”: ecco quali sono

Sicilia Live

Articoli a cura della redazione di SiciliaLive.eu

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *