Il post della psicologa Virginia Avveduto conquista il web: la lingua siciliana non è sinonimo di ignoranza, al contrario rappresenta la nostra storia.


Trinacria

Tempi, verbi, forestierismi: unicità e magia della lingua siciliana

In Sicilia quando non sei proprio convinto dici “ora poi lo facciamo…” oppure ad una domanda rispondi contemporaneamente “sì, no…”.

Noi siciliani abbiamo una percezione del tempo molto particolare, ad esempio quello che hai fatto il giorno prima diventa passato remoto, come fossero trascorsi secoli… oppure quando stai uscendo di casa, rassicuri tutti affermando “sto tornando”, anche se il tuo rientro sarà dopo un paio d’ore.



Per noi il condizionale è quasi inutile, infatti lo sostituiamo direttamente con il congiuntivo, tipo “se putissi, u facissi”. Abbiamo anche il “potere” di far diventare transitivi i verbi intransitivi, infatti noi usciamo la macchina, saliamo la spesa, usciamo i soldi.

Poi a noi piace molto utilizzare gli spostamenti “salire e scendere” in modi molto fantasiosi, infatti noi “scendiamo giù a Natale” e “saliamo dopo le feste”, anche il caffè “è salito” e la pasta si cala. Qui, in Sicilia, le macchine camminano come avessero gambe, e non vengono guidate ma “portate”.



Spesso utilizziamo una sola parola per indicare più oggetti, ad esempio non c’è differenza tra tovaglia, asciugamano, tovaglietta, strofinaccio, per noi è solo tovaglia, e basta. Se vogliamo dire ad un amico di venire a trovarci, gli diciamo di “avvicinare”, che è meno formale e più amichevole.

Riusciamo anche a trasformare un luogo in un modo di fare, ad esempio il cortile diventa “curtigghiu”, ovvero spettegolare, anche se quest’ultimo non rende molto l’idea.



I forestierismi della lingua siciliana

Se parliamo in questo modo non vuol dire che siamo ignoranti e arretrati, dietro ogni parola o espressione che utilizziamo si nascondono le nostre origini, la nostra storia.

Ad esempio “tumazzu, carusu, cammisa“, sono parole greche (vedi tumassu, kouros, poucamiso); “carrubo” deriva dall’arabo “harrub”, così come le parole “cassata e giuggiulena“. “Accattari“, deriva dal normanno “acater” (da cui il francese “acheter”), oppure “arrieri” (da darriere).



Dal catalano abbiamo preso in prestito le parole “abbuccari” (da abocar),”accupari” (da acubar), “cascia” (da caixa) ecc… Questi sono solo alcuni esempi, in realtà sono migliaia i vocaboli presi in prestito dalle altre lingue.

Essere orgogliosi delle proprie radici però non significa chiudersi e rifiutarsi di conoscere la grammatica italiana, ritenendo snob “quelli del nord” quando ci correggono. Anzi, utilizzare il proprio dialetto (più che dialetto è una lingua a tutti gli effetti) con consapevolezza, può soltanto arricchire.

Credits: FB Virginia Avveduto



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